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giovedì 12 settembre 2013

Intervista ad Anselm Jappe: Che cosa rimane di Guy Debord



a cura di Riccardo Antonucci

A margine del convegno dal titolo “I situazionisti: teoria, arte e politica”, tenutosi all’Università di Roma 3 lo scorso 30 maggio, abbiamo intervistato Anselm Jappe, tra i relatori di questa giornata insieme, tra gli altri, a Mario Perniola (1). Si è parlato della recente mostra degli archivi Debord alla Bibliothèque Nationale de France e dell’attualità, o meglio della feconda inattualità, dell’opera del pensatore francese.



Dopo aver partecipato al collettivo tedesco Krisis, Anselm Jappe insegna attualmente estetica all’EHESS di Parigi, e all’Accademie d’Arte di Frosinone e di Tours. Ha studiato a fondo la corrente situazionista, ed è autore di numerosi articoli e volumi, in francese, tedesco e italiano, tra cui spiccano: Crédit à mort (Paris 2011), Contro il denaro (Milano 2012) e i due importanti volumi Guy Debord (Paris 2001, ried. Roma 2013) e L’avant garde inacceptable (Paris 2004).
La prima domanda è d’obbligo: non si può parlare di Guy Debord oggi senza menzionare la grande mostra a lui dedicata alla BNF (“Guy Debord, un art de la guerre”), in cui sono esposti i suoi archivi recentemente dichiarati “tesoro nazionale”. All’annuncio dell’evento, si è subito sviluppato un dibattito tra i lettori di Debord, divisi tra chi ha salutato positivamente la scelta e chi, invece, ha denunciato come reazionaria la scelta di mettere Debord “in mostra”, in contraddizione con il principio di marginalità dell’opera debordiana. Lei come si colloca rispetto a questo evento?


Anselm Jappe – Mi sembra una grande opportunità il fatto che gli archivi di Debord siano ora a disposizione del pubblico. Molto peggio se fossero stati dispersi tra diverse mani, o venduti a un collezionista privato: solo in questo modo si poteva garantire una reale disponibilità di questo fondo. Inoltre, penso sia un bene che lo Stato francese, invece di finanziare un altro carro armato, abbia usato i suoi soldi per acquisire questi archivi. Per questo mi risulta difficile comprendere il dibattito sulla cosiddetta récupération di Debord, dal momento che ormai oggi, a vent’anni dalla sua morte, egli è senz’altro diventato un classico, e sarebbe molto artificiale volerlo tenere ancora in una zona di marginalità. Quel che conta sono i contenuti della sua opera, non il modo in cui essa viene proposta.
Del resto, Debord stesso ha sempre ricordato quanto sia stato importante per lui, da giovane, leggere certi autori, come Baudelaire, Apollinaire o Lautréamont. Anche questi autori erano ormai dei classici, negli anni ’50. Non è certo questo statuto a impedire un eventuale effetto sovversivo di un’opera.
Quale interesse può avere la mostra alla BNF per un ricercatore o per lo studioso dell’opera di Debord? Si aprono nuove prospettive di studio o spunti per l’attualizzazione del suo pensiero?
A. J. –
La mostra offre molto materiale già noto, ma anche molte cose inedite e nuove per il ricercatore. Per esempio, una buona parte delle migliaia di schede di lettura di Debord, che ho consultato. Queste schede confermano, intanto, un dato già noto, e cioè che Debord fosse un accanito lettore, ma mostrano anche un vero e proprio lavoro certosino di ricopiatura di lunghi estratti dei libri letti, che francamente si ignorava. Inoltre, si possono trovare negli archivi molti cartoncini con note e osservazioni di vario tipo, dall’Internazionale Situazionista alla sua vita privata.
L’interesse principale per il ricercatore è senz’altro costituito da questa miriade di schede di lettura, in quanto esse permettono di sapere con certezza che cosa ha letto Debord e a che cosa si è interessato nei vari periodi della sua vita. A volte le schede sono commentate, soprattutto quelle stilate in vista della redazione de La società dello spettacolo, l’opera principale di Debord, uscita nel 1967. Per esempio, per me è stata una sorpresa scoprire che Debord lesse con molta attenzione Il dispotismo orientale di Karl August Wittfogel, sinologo e storico tedesco-americano. Su questo libro Debord aveva effettivamente scritto una breve nota di lettura nella rivista «Internationale Situationniste», ma soltanto leggendo le schede di lettura mi sono potuto rendere conto di quanto l’opera di Wittfogel abbia inciso nell’elaborazione del concetto di “spettacolo”. In particolare per quanto riguarda l’identificazione degli amministratori cibernetici e burocratici della società dello spettacolo con l’antica casta di ingegneri e preti che governavano l’Egitto e la Mesopotamia. E penso che ci saranno molte alte sorprese in questo archivio, di cui ho soltanto cominciato il lavoro di vagliatura.

venerdì 26 luglio 2013

Rudy Leonelli su «Classe» di Andrea Cavaletti



[abstract del  contributo al dialogo « A partire da un  libro :  Classe di A. Cavalletti »
per il 

Magione (Perugia)Sabato 27 luglio]




Classe, di Andrea Cavalletti, in virtù della forza intempestiva della sua problematica fondamentale, riassunta nettamente dalla breve parola che –  sola –  costituisce il titolo completo del libro, segna di fatto  un sensibile scarto rispetto a forme più o meno generiche di contestazione del potere, e/o  di  riemergenti espressioni di un anticapitalismo ridotto a mera protesta morale.
Ed è  probabilmente proprio per il  suo carattere  inattuale, che lo distanzia dal panorama culturale e politico corrente, che Classe  (come ha affermato,  tra altri, per es. Umanità Nova)  è stato da sùbito, un avvenimento.


Affrontando questo libro incisivo, necessariamente complesso e impegnativo (soprattutto in ragione di quello che Damiano Palano ha definito «il raffinato percorso compiuto da Cavalletti» nel tentativo di «scorgere l’elemento distintivo della classe»), vengono proposti alla discussione alcuni nodi problematici salienti:

I) un tentativo di specificazione del concetto chiave di solidarietà, concepito ed agito in termini materialisti, estraneo a supposti valori «superiori», come è stato chiarito da autori ed esperienze della scuola di Francoforte;


II) alcuni possibili approfondimenti del rapporto Foucault-Marx configurato nella chiara esposizione di Cavalletti concernente la biopolitica come forma del governo della popolazione;

 III) la conclusione sviluppa alcune considerazioni   essenziali sull’importanza dei concetto di reattivo (di ascendenza nietzscheana) magistralmente riattivato da Gilles Deleuze, che svolge un ruolo decisivo in Classe.

sabato 27 aprile 2013

... non un'immagine giusta, ma giusto un'immagine.



Giudicare è il mestiere di molta gente, e non è un buon mestiere, ma è anche l'uso che molti fanno della scrittura. Meglio essere uno spazzino che un giudice. Più uno si è ingannato nella vita, e più dà lezioni; non c'è che uno stalinista per dare lezioni di antistalinismo ed enunciare le “nuove regole”. Esiste una razza di giudici, e la storia del pensiero si confonde con quella del tribunale della Ragion pura, o della Fede pura. È per questo che la gente parla così facilmente in nome e al posto di altri, ed è per questo che ama tanto le domande, ed è tanto capace di porle e di rispondervi … La giustizia, la giustezza, sono cattive idee. Bisognerebbe opporvi la formula di Godard: non un'immagine giusta, ma giusto un'immagine. È la stessa cosa in filosofia, come in un film o una canzone: non delle idee giuste ma giusto delle idee. Giusto delle idee significa l'incontro, il divenire, il furto e le nozze, questo spazio intermedio fra due solitudini.



                                                                  Gilles Deluze   


in  G. Deleuze e C. Parnet, Dialogues, Flammairon, Paris 1977,

tr. it. Conversazioni, a c. d. G. Comolli, Feltrinelli, Milano 1980

venerdì 21 gennaio 2011

Gilles Deleuze - sul trionfo delle forze reattive

È un divenire-malato di tutta la vita, un divenire-schiavo di ogni uomo che costituisce la vittoria del nichilismo. Così si potranno evitare dei fraintendimenti sui termini nietzschiani «forte» e «debole», «signore» e «schiavo»: è evidente che uno schiavo non cessa di essere uno schiavo prendendo il potere, né il debole un debole. Le forze reattive, anche se prendono il sopravvento, non cessano di essere forze reattive. Poiché, in ogni cosa, secondo Nietzsche, si tratta di una tipologia qualitativa, si tratta di bassezza e nobiltà. I nostri signori sono degli schiavi che trionfano, in un divenire-schiavo universale: l’europeo, il servo, il buffone… Nietzsche descrive gli stati moderni come formicai, in cui i capi e i potenti hanno il sopravvento per la loro bassezza. Per il contagio di questa bassezza e di questa buffoneria. Quale che sia la complessità di Nietzsche, il lettore può facilmente capire in quale categoria (cioè in quale tipo) egli avrebbe posto la razza dei «signori» concepita dai nazisti. Quando il nichilismo trionfa, allora, e soltanto allora, la volontà di potenza cessa di voler dire «creare», ma significa: volere la potenza, desiderio di dominio (dunque attribuirsi, o farsi attribuire, i valori stabiliti: soldi, onore, potere…). Ora proprio questa volontà di potenza è precisamente quella dello schiavo, è il modo in cui lo schiavo concepisce la potenza, l’idea che egli se ne fa, e che egli applica quando trionfa. Succede che un malato dica: ah! Se ne avessi le forze farei questo – e forse lo farebbe anche – ma i suoi progetti e le sue concezioni sono ancora quelle di un malato, nient’altro che quelle di un malato. È la stessa cosa per lo schiavo e la sua concezione della signoria o della potenza. E la stessa cosa per l’uomo reattivo e la sua concezione dell’azione. Ovunque il rovesciamento dei valori e delle valutazioni, ovunque le cose viste da un miserabile punto di vista, le immagini rovesciate come nell’occhio del bue. Una delle più grandi affermazioni di Nietzsche è: «bisogna difendere i forti dai più deboli».

Gilles Deleuze
Nietzsche, Presses Universitaires de France, Paris 1965
tr. it. a c. d. F. Rella, Nietzsche. Con antologia di testi, Bertani editore, Verona 1973, p. 30-31
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domenica 14 novembre 2010

Deleuze - Boulez - Berg


Gilles Deleuze
Vincennes, 1975-1976


La storia fatta dai grandi compositori non è una storia conservatrice ma al contrario una storia di distruzione pur amando l'oggetto che si distrugge. Boulez lo dice a proposito delle forme musicali in Berg.





L'histoire faite par les grands compositeurs est non pas une histoire conservatrice mais une histoire de destruction tout en cherissant l'objet quo'n detruit. Boulez le dit à propos des forrmes musicales chez Berg.
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sabato 25 settembre 2010

Alain Badiou, Piccolo pantheon portatile



Enzo Di Mauro

Badiou, tombe a orologeria




Da Derrida a Deleuze, da Foucault ad Althusser, da Lacan a Canguilhem e Cavaillès, queste quattordici orazioni funebri di Alain Badiou si propongono quasi come un'intifada del pensiero in nome e per conto degli ultimi materialisti.



Come in ogni altro libro di Alain Badiou, anche nel Piccolo pantheon portatile (Il Melangolo, a cura di Tommaso Ariemma, traduzione di Luisa Bosi, pp. 142, € 15, 00) – un titolo che parrebbe lezioso se non venisse inteso in maniera letterale e trasparente – si mantengono bene in vista i segni di una indomabile passione per il reale, qui semmai illuminati da una temperatura emotiva altissima. Virilmente introiettato il lutto, l'acuto sentimento di perdita che ne anima le pagine e ne determina l'andatura si trasforma d'un sol colpo in gesto militante, in lampo di pensiero, in netto e risentito starsene nel campo aspro e seminato a pietre, chiuso a ogni orizzonte di conciliazione, precluso a ogni patto con chiunque si erga a campione della presunta «innocenza » (in verità un'impostura criminale) delle democrazie parlamentari e dei regimi liberali. Poiché, quella del filosofo nato a Rabat settantatré anni fa, è qui un'intifada in nome e per conto dei maestri, degli interlocutori, dei contraddittori e dei compagni di strada che se ne sono andati via per sempre, lasciando vuoto il paesaggio combattente dopo quell'estremo lembo di secolo – diciamo, all'incirca, l'arco di tempo che andò dal 1960 al 1980 – in cui s'accesero gli ultimi fuochi del materialismo e, in senso lato, del pensiero critico e radicale più irriducibile.

Resta quello, per Badiou, un lascito lanciato nel futuro, sebbene un trentennio di restaurazione lo abbia come posto in sonno, in attesa di attivo riutilizzo. Ebbene: se soltanto il sommo Bossuet non avesse messo il suo stile al servizio del potere e dei potenti, lo zelo politico all'autore gli avrebbe consentito senza rimorsi di intitolare il suo libro, assai semplicemente, Orazioni funebri. Ma resta quello il modello, quella l'intenzione per i quattordici epicedi dedicati ad altrettante figure centrali della filosofia francese. È un libro a suo modo straordinario, di quelli che solo a un sopravvissuto è dato di scrivere o di ordinare.

Si tratta di articoli a volte molto brevi, in altri casi di testi (conferenze o saggi) più esaustivi e distesi – in entrambi i casi composti quasi sempre a caldo, sotto l'effetto della commozione, dell'improvvisa mancanza. Non si tratta tanto di frequentare la morte da vicino («se la filosofia ha un qualche compito, è quello di allontanare il calice delle passioni tristi, di insegnarci che la pietà non è un sentimento onesto, né il lamento è la ragione di aver ragione, né il vittimismo è ciò a partire da cui articolare il nostro pensiero”), quanto piuttosto di rendere onore a ciò che resta dei processi di verità così raggrumati nel percorso pensante di quelle vite. Di ognuna di esse Badiou coglie il punto nevralgico, gli inciampi, le fratture, l'ambito del discorso più prossimo e prezioso al tempo a venire.Ma pure a muoverlo agisce un sentimento arioso e verticale, come egli annota nel concludere l'introduzione: «Fui legato ad alcuni da amicizia, con altri ebbi qualche discussione. Ma sono felice di dire qui, in barba agli intrugli che vogliono farci ingoiare oggi, che questi quattordici filosofi scomparsi li amo tutti, ebbene sì. Sì, li amo».

Quanto vi è di avventuroso in tale piegatura intima e sentimentale appare facile intuire. Letture, discussioni, apprensioni, battaglie – tutto confluisce nella formazione di un intellettuale come Badiou, così stretto al respiro del suo tempo e al tratto di Novecento che gli è toccato in sorte di attraversare e che, al finire di esso, egli ha avvertito l'urgenza e la necessità di indagarne il significato in una serie di seminari svolti al Collège international de philosophie negli anni tra il 1998 e il 2001(Il secolo è stato poi pubblicato da Feltrinelli nel 2006). Già lì, nello spazio aperto del suo Novecento, oltre agli omaggi, commoventi per il lettore, a Osip Mandel'štam, Jean Genet, Paul Celan, Pessoa, Brecht , Malevic, troviamo i maestri e i compagni di viaggio a lui più prossimi, molti dei quali in teoria dolente formano la costellazione resistente del suo piccolo pantheon.

Allora eccola la compagine dei senza paura: Jacques Lacan (1901-1981), Georges Canguilhem (1904-1995) e Jean Cavaillès (1903-1944), Jean Paul Sartre (1905-1980), Jean Hyppolite (1907-1968), Louis Althusser (1918-1990), Jean François Lyotard (1924-1998), Gilles Deleuze (1925-1995), Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004), Jean Borreil (1938-1992), Philippe Lacoue-Labarthe (1940-2007), Gilles Châtelet (1945-1999) e Françoise Proust (1947-1998). È questa la linea di una ricerca materialistica, eretica quanto eterogenea, che ha investito o almeno sforato di sé la pratica dell'agire politico che più ha coinvolto e interessato Badiou, e in proposito basterà leggere, senza essere particolarmente né specialmente votati alla filosofia, l'opera sua per ritrovarne ovunque sparsi i nomi e le idee. Tra le cose notevoli, qui – dove, tra l'altro, quando è il caso, non si trascura il ritratto e persino l'aneddotica più curiosa – spicca ad esempio la rivendicazione tutta in positivo dell'ultimo Lacan, il più criticato dalla vulgata giornalistica, nella cui estrema pratica clinica invece, e proprio a partire dal cruciale assioma secondo il quale non bisogna cedere di un solo millimetro rispetto al proprio desiderio, si farà più stringente l'indagine intorno al rapporto col reale e alla dialettica del soggetto («per un marxista francese contemporaneo, Lacan ha la stessa funzione che aveva Hegel per un rivoluzionario tedesco del 1840»).

Ma poi per ognuno vi è un tratto che si prova a definirlo, a riassumerlo, a storicizzarlo, a glorificarlo in uno stemma imperituro. Sartre, a cui il diciottenne Badiou deve intanto l'iniziazione «a ogni delizia filosofica», è il compagno d'azione e di idee con i suoi trent'anni «di puntuale militanza nella rivolta, di equilibrata metamorfosi di posizioni, di colpi bene assestati» e il cui peso nella storia letteraria può paragonarsi a quello di Voltaire, di Rousseau e di Victor Hugo, «scrittori, questi, che non cedono». O la «singolarità esistenziale » di Hyppolite, «traghettatore » di Hegel in terra di Francia (mirabile, anche per i tedeschi, la sua traduzione della Fenomenologia della spirito), e poi «organizzatore, nel senso di colui che recluta, che sa porre le domande migliori e stringere alleanze anche con persone molto lontane da lui», lettore insonne, fumatore imbattibile fino all'autocombustione. E, ancora, Althusser, per il quale «le questioni del pensiero provengono dallo scontro, dalla linea del fronte, dai rapporti di forza. Il chiodo della rue d'Ulm mal si accordava sia con il tempo della meditazione sia con quello del ritiro. Lì non esisteva che il tempo dell'intervento, circoscritto, agitato, come precipitato verso una fine ineluttabile. L'altro tempo, infinito, era quello del dolore. Purtroppo».

Ma ciò che forse indica il senso vero e l'anima del pantheon di Badiou è la lettura sovrapposta o a incastro di Canguilhem e di Cavaillès, il cui perimetro viene circoscritto nella breve, intensissima monografia del primo dedicata al secondo e intitolata Vita e morte di Jean Cavaillès, pubblicata nel 1976. Quella vita e quella morte camminano tenendosi per mano. Il giovane filosofo e matematico che militò nella Resistenza e che venne torturato e assassinato dai nazisti ad Arras diventa l'emblema, limpido e insieme misterioso, di un punto di contatto, comunque invincibile, che possiamo chiamare etica dell'azione. Appunto: tombe risolute e temerarie quelle che ci consegna Badiou. Imbottite di esplosivo.

da Alias n. 38 del 25 settembre 2010


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Petit panthéon portatif

Ceux qui, aux alentours de 1965, avaient entre vingt et trente ans, ont alors rencontré un nombre exceptionnel de maîtres dans le champ de la philosophie. Les anciens comme Sartre, Lacan ou Canguilhem, étaient encore en pleine activité ; d'un peu plus jeunes, comme Althusser, déployaient leur œuvre, et toute une génération, les Deleuze, Foucault, Derrida, entrait dans l'arène.
Tous ces maîtres, aujourd'hui, sont morts. La scène philosophique, largement peuplée d'imposteurs, est autrement composée, ne tirant sa consistance que de ceux, jeunes et moins jeunes, qui, les formulant à neuf dans leur propre langue, savent être fidèles aux questions qui nous animèrent il y a quarante ans. Je crois juste de rassembler les analyses et hommages qu'au long des années, quand ils disparaissaient, j'ai consacrés à ceux à qui je dois la signification, toujours inhumaine autant que noble et combattante, du mot «philosophie». Je n'ai pas toujours eu avec ces contemporains capitaux des rapports simples et sereins : la philosophie, comme le dit Kant, est un champ de bataille. Mais, considérant aujourd'hui les innombrables «philosophes» médiatiques, je puis dire que j'aime tous ceux dont je parle dans ce livre. Oui, je les aime tous.

giovedì 16 settembre 2010

Gilles Deleuze - «A che serve la filosofia?»


Allorché qualcuno domanda a che serve la filosofia, dobbiamo rispondere in modo aggressivo, poiché la domanda vuole essere ironica e mordace. La filosofia non serve né lo Stato né la Chiesa, che hanno altre preoccupazioni. Non serve ad alcuna potenza costituita. Una filosofia che non turba e non contraria nessuno non è una filosofia. Essa serve a far danno alla stoltezza, facendone qualcosa di turpe. Essa ha la sola funzione di denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme.
Gilles Deleuze
Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris 1962
tr. it. di S. Tassinari, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978
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mercoledì 14 luglio 2010

14 luglio: è... festa!



In un'epoca epoca in cui il revisionismo è divenuto normale, non sorprende che, nell'anniversario del 14 luglio 1789, importanti centri di potere si dedichino alla stigmatizzazione di un improbabile.... "clima giacobino".

In questo contesto, contro ogni revisionismo, salutiamo con entusiasmo un'iniziativa "minore" (in senso "deleuziano"): la festa dell'anniversario della presa della della Bastiglia che si svolge oggi a Bologna al Mercatino del libro di via Zampieri.


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sabato 29 maggio 2010

Tonino Bucci: Foucault, ovvero l'anti-Marx. Una leggenda da smontare

Tonino Bucci

Foucault, ovvero l'anti-Marx
Una leggenda da smontare


Una raccolta di saggi sul rapporto tra i due filosofi, a cura di Rudy M. Leonelli.
E con un'intervista di Balibar



Si è diffusa una vulgata che contrappone i due pensatori: l'uno visto come un teorico del collettivismo, l'altro come un profeta della rivolta individuale e del micropolitico. Semmai Foucault contestava il marxismo come sistema di potere

da: Liberazione, 28 maggio 2010



«Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per essere colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a pie' di pagina o di un'approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro».

Queste poche righe portano la firma di Michel Foucault e sono riprodotte in una delle opere che più ha contribuito a far conoscere in Italia gli aspetti militanti del suo pensiero. Parliamo di
Microfisica del potere, sottotitolo Interventi politici, più che un'opera sistematica, una raccolta di testi, brevi scritti, dibattiti e interviste, uscita non a caso qui da noi nel 1977. Anno cruciale, durante il quale si registra nel campo della sinistra (soprattutto in Italia e in Francia) il massimo di rottura tra movimento operaio e partiti comunisti, da un lato, e i movimenti studenteschi dall'altro. Movimenti che dall'interno delle università cominciano a guardare a nuovi soggetti al di fuori di quelle che vengono definite strutture burocratiche e di potere, dai sindacati ai partiti. Da qui si spiega l'attenzione del Settantasette verso i non garantiti e il proletariato metropolitano, verso gli esclusi e il sottoproletariato, verso i malati mentali e verso un'intera costellazione di soggetti che per la prima volta cade al fuori della "classe operaia". Di questi soggetti si mette in evidenza non un'azione di resistenza al potere riconducibile, in qualche modo, a una strategia politica complessiva. I nuovi soggetti "desideranti" del '77 sono semmai protagonisti di pratiche quotidiane di resistenza. E' la disseminazione, l'assenza di gerarchie interne - il carattere "rizomatico" diranno Deleuze e Guattari - a distinguere le azioni contro il potere. E non a caso, è questo il periodo di massima fortuna politica di Foucault, artefice di una teoria del potere come qualcosa di capillare e diffuso nella trama dei rapporti sociali, dalla fabbrica al carcere, dalla scuola all'ospedale psichiatrico.

Forse per questo il rapporto teorico di Foucault con Marx (e il marxismo, che però è altra cosa) diventa una questione sensibile, lo specchio cioè in cui si riflette lo scontro tra partiti e movimento che non si risparmiano scomuniche reciproche - da una parte l'accusa di radicalismo piccolo-borghese e individualismo anarchico, dall'altra quella di burocratismo e difesa corporativa dell'aristocrazia operaia. Sennonché il clima rovente di quello scontro politico è forse all'origine della vulgata di un Foucault senza Marx o, addirittura, contro Marx, e proprio per questo "organico" al Settantasette.

L'impressione che invece si ricava dalla lettura di una raccolta di saggi pubblicata di recente,
Foucault-Marx (a cura di Rudy M. Leonelli, Bulzoni Editore, pp. 146, euro 13) è ben diversa. A cominciare dall'intervista a Balibar che mette in guardia da un dibattito «che mi sembra riduttivo», non solo rispetto alla complessità di due pensatori come Marx e Foucault, ma anche «per quelli che ancora oggi - e bisognerebbe interrogarsi sulla ragione per cui ne hanno talmente bisogno - continuano a battere il chiodo, spiegando come, con Foucault, sarebbe stato definitivamente trovato l'antidoto al marxismo». Non regge, ad esempio, la vulgata di un Marx collettivista contro un Foucault più attento, invece, al micropolitico e alla costituzione del soggetto individuale. Anche perché la critica di Marx all'individualismo - ancora parole di Balibar - è essenzialmente «la critica delle forme borghesi dell'individualismo», cioè dell'astrazione giuridica dell'individuo proprietario che è alla base della società del mercato. «Considerare il comunismo non come l'annientamento dell'individuo nella massa, ma come l'emergenza di possibilità di individualizzazione schiacciate dalla società borghese, è un aspetto molto profondo del pensiero di Marx».

Anche se si guarda alla nozione centrale, che dovrebbe registrare la massima distanza tra Foucault e Marx, ossia l'idea di potere , la presunta incompatibilità tra i due pensieri comincia a vacillare. Anzi, proprio i testi foucaultiani sul potere potrebbero insegnare a leggere correttamente Marx. Per entrambi i filosofi, infatti, il potere è una funzione che si esercita all'interno della società come sistema .

Foucault non intende sbarazzarsi di Marx - come scrivono Alberto Burgio e Guglielmo Forni Rosa nei rispettivi interventi - ma del marxismo quando diventa una scienza legata a un sistema di potere, indifferentemente che si tratti delle università, di un partito o di uno Stato (per averne un'idea basta leggere il contributo di Manlio Iofrida sul marxismo francese degli anni 50). L'idea del potere che ha in mente Foucault come un meccanismo che produce i soggetti coinvolti, quindi come «relazione», come «rapporto di direzione che suppone anche il consenso del destinatario del flusso di potere» (Burgio) è tutt'altro che assente in Marx.

E', in breve, colpa di una lettura economicistica se si è affermata la vulgata di un Marx che si disinteressa della politica e del potere che si esercita al di fuori della fabbrica, nel grande campo dell'ideologia. Da questo punto di vista la funzione di potere come immaginata da Foucault assomiglia alla funzione intellettuale di Gramsci, pervasiva non solo sul terreno della cultura e della comunicazione di massa, «ma anche in tutti gli snodi del rapporto sociale, a cominciare dal processo di produzione e dall'epifania della merce». Questo non significa far scomparire gli scarti che in Foucault si producono rispetto a Marx, ad esempio quando nega che nel flusso di potere ci sia una direzione verticale dall'alto verso il basso, dalla classe dominata ai dominati. Il potere foucaultiano resta un sistema orizzontale che distribuisce in modo equo e imparziale i propri effetti. Forse la tesi meno adeguata a spiegare il reale funzionamento del meccanismo capitalistico che dispensa costi e benefici in modi tutt'altro che simmetrici.


mercoledì 21 marzo 2007

Il Grande Dialogo


Dopo la battuta in cerchio gli accerchianti invitano gli accerchiati a un colloquio. Si cerca il Nuovo Inizio. Il Grande Dialogo. Invece delle pubbliche bastonate il tè dietro porte imbottite. Lo scopo dell'esercitazione è dichiarato insieme all'invito: le pecore bianche devono essere separate da quelle nere, si deve spezzare la solidarietà

Hans Magnus Enzensberger,
Palaver



Ho recepito la scelta di organizzare a Bologna un convegno legato al ‘77 come un'implicita sollecitazione ad affrontare problemi che hanno un'importanza strategica in questa città, ma non soltanto per questa città. Per questo vorrei partire da questioni emerse sul piano locale, cercando poi di intravedere almeno il profilo di problematiche più estese. L’attenzione alla dimensione microfisica dei poteri e degli affrontamenti non va confusa con un angusto “localismo”, ma può fornire un punto di attacco per una riflessione in termini di strategie.
La rilevanza di Bologna nel ‘77 è nota, ma questa stessa notorietà comporta semplificazioni e scarsa problematizzazione: la “storia” diventa fruibile e si banalizza... Come contrastare questi reiterati tentativi di normalizzazione? Credo che non si tratti di istituirsi come memoria, testimoniare una “verità” del movimento che andrebbe restaurata, ripristinata nella sua originaria autenticità: il rischio della sterilità o della produzione di miraggi è fin troppo evidente. E’ forse più interessante rovesciare la prospettiva e chiedersi che cosa c’è in gioco nelle operazioni di riscrittura, direttamente sollecitate o benevolmente accolte da quelle stesse istituzioni che avevano estirpato e cancellato il movimento in quegli anni.
La peculiarità della situazione bolognese introduce un punto di vista asimmetrico sulle questioni discusse oggi, una sorta di eccezione che può forse aiutare a riformulare i problemi, o almeno a mostrarne aspetti meno evidenti.

martedì 27 febbraio 2007

Maurice Blanchot: Michel Foucault come io l'immagino

Maurice Blanchot
Michel Foucault come io l’immagino, Genova, Costa & Nolan 1988 [Michel Foucault tel que je l’imagine, Montpellier, Fata Morgana 1986]  
 
1. L’immagine non è, in Blanchot, confortata dalla credenza nel “profondo di un sogno felice che l’arte troppo spesso autorizza”.
“Vivere un avvenimento in immagine – citiamo ancora, e necessariamente a lungo, da Lo spazio letterario – non vuol dire disimpegnarsi da questo avvenimento, disinteressarsene, come vorrebbero la versione estetica dell’immagine e l’ideale sereno dell’arte classica, ma vuol dire non più impegnarvisi con una decisione libera: vuoi dire lasciarsi prendere, passare dalla regione del reale, in cui ci teniamo a distanza dalle cose per meglio disporne, a quest’altra regione in cui la distanza ci tiene, questa distanza è allora profondità non viva, indisponibile, lontananza inapprezzabile divenuta come la potenza suprema e ultima delle cose ... Vivere un avvenimento in immagine, non vuol dire avere di questo avvenimento una immagine, e neppure conferirgli la gratuità dell’immaginano. L’avvenimento, in questo caso, avviene veramente; e tuttavia avviene ‘veramente’? Ciò che accade ci afferra, come ci afferrerebbe l’immagine, vale a dire ci priva, di esso e di noi, ci tiene al di fuori, fa di questo di fuori una presenza in cui ‘Io’ non ‘si’ riconosce”.
L’evocazione straniante dell’incontro anonimo e aleatorio con Foucault nel ’68, che apre Michel Foucault come io l'immagino, presenta quel carattere di esteriorità irriducibile dell’avvenimento, che costituisce un luogo cruciale dell’opera (sia “critica”, sia letteraria”) di Blanchot. “Non è una
finzione benché non sia capace di pronunciare a proposito di tutto ciò la parola verità. Gli è successo qualcosa, e non può dire che sia vero, né il contrario. Più tardi, pensò che l’avvenimento consistesse in questa maniera di non essere né vero, né falso” (L'attesa, l’oblio). E ancora, ne La comunità inconfessabile (a proposito di Acéphale): “Coloro che vi hanno partecipato non sono sicuri di avervi avuto parte”.

2. “Esprimere soltanto quello che non può esserlo. Lasciarlo inespresso” (L‘attesa, l’oblio).